Giorgio Galimberti a SuperNews: "Nardi? Un predestinato sicuro. Ci serve un doppio per vincere la Davis"

SuperNews ha avuto il piacere di intervistare Giorgio Galimberti, ex tennista professionista, con un best ranking nel singolare a ridosso della Top 100 ATP (numero 115) e vicino alla Top 50 in doppio (65esimo posto). Titolare della Nazionale azzurra per diversi anni, oggi "Galimba" dirige con successo una sua accademia di tennis (la Galimberti Tennis Academy) a Cattolica. Inoltre, conduce un programma su SuperTennis denominato "Circolando" ed è stato in passato anche commentatore per Sky Sport.

 

Nel 1994 hai raggiunto la finale del Roland Garros juniores, venendo sconfitto dallo spagnolo Jacobo Diaz, che poi avresti rincontrato e battuto qualche anno più tardi, nel 2001, nel Challenger di Biella. La finale giocata a Parigi ha sicuramente rappresentato un momento di svolta nella tua carriera. Ma è stata allo stesso tempo anche un'ulteriore fonte di pressione per te nel passaggio da juniores a pro o credi che non abbia influito?

È stato sicuramente un risultato che mi ha dato la consapevolezza di avere i mezzi per diventare un giocatore. La vera svolta c'è stata due settimane prima quando sono riuscito ad arrivare in finale al Bonfiglio. Fare back to back finale lì e poi al Roland Garros mi ha dato una spinta importante, anche a livello juniores perché mi ha permesso di diventare numero 2 del mondo (per poi chiudere l'anno al numero 4). La pressione poteva arrivare dai fan, dagli sponsor, però se un giocatore non è abituato o non è capace di gestire la pressione, non può fare il tennista. A mio avviso quando un giocatore giustifica un mancato risultato a causa della pressione è un alibi. Devi imparare a gestire la pressione se vuoi stare su un certo palcoscenico. Le problematiche in uscita da junior le ho avute per altri motivi. Le ho avute perché non ho capito che dietro a quei risultati bisognava condire il tutto con grande lavoro e nulla era ovvio e scontato. Io pensavo di svegliarmi da un giorno all'altro giocatore, invece c'era dietro una pianificazione un po' diversa. A dir la verità, da junior, bisognava sfruttare un po' più quell'incoscienza del giovane che si butta nel circuito. Preparato, però, e non impreparato come ero io. Quando ti butti nel circuito non hai ancora subito grandi sconfitte e nella tua testa hai quella convinzione di poter battere chiunque. Dopo aver preso delle batoste a livello satellite (che sono gli attuali Futures) questa fiducia inizia a vacillare. Quando inizi a perdere le tue certezze hai bisogno di ritrovarle e nel mio caso ci è voluto del tempo.

In carriera hai affrontato e battuto tanti giovani tennisti che sarebbero in seguito diventati Top 10. Penso a Ivan Ljubicic, Radek Stepanek, Joachim Johansson, Gael Monfils, Gilles Simon e Marin Cilic. Vedendo poi come si è evoluta la loro carriera, cosa pensi ti sia mancato per fare quello step in più che ti avrebbe permesso di entrare nell'élite del tennis mondiale?

Credo di essere stato superficiale sotto certi aspetti tecnici. Sul dritto, che è un colpo importantissimo nel tennis maschile, non ho mai accettato di mettermi lì e lavorare tecnicamente apportando anche dei cambiamenti drastici. La volée e il rovescio mi venivano naturali. Avevo un discreto servizio si può dire perché comunque non servivo male. Però il dritto era un colpo molto altalenante, che nella giornata no era il primo a scricchiolare. Credo che io non abbia avuto l'umiltà di capire che, con i mezzi che avevo, non avrei potuto comunque andare più di tanto oltre. Dire 115 o 70 è la stessa cosa. È una classifica abbastanza vicina. Ci sono degli incastri che ti permettono di stare 70, magari fai una stagione e poi ci esci. Per me diventare forte voleva dire entrare nei primi 50. C'è una differenza enorme, anche perché se sei nei primi 50 hai l'obbligo di giocare determinati tornei molto duri e quando perdi al primo turno quei punti pesano. Per stare nei primi 50 del mondo ci vuole una base veramente molto solida di tennis. Credo che la partita tecnica sia stata quella che ha vacillato di più. Di conseguenza anche la parte tattica è rimasta sempre un pochettino più difesa-conservativa, invece che offensiva. Mi avrebbe aiutato tirare fuori le mie qualità, e quindi il gioco a rete, la predisposizione all'attacco. Stando fuori dal campo per tutelare il mio dritto, questo mi ha un po' tagliato le gambe. Ma col senno di poi è troppo facile. Tutti i giocatori guardano indietro e scovano degli errori. Anche il non saper essere capaci di mettersi in gioco e fare dei lavori tecnici magari perdendo anche un paio di mesi, quello è un limite di un giocatore. E penso di aver avuto anche questo limite.

Puoi comunque dire di non avere rimpianti?

Io ho fatto il professionista veramente. Non ti parlo di professionista per i risultati, ma dello stile di vita. Io ero il primo ad arrivare al circolo tennis Matchball a Firenze, un'ora e mezza prima degli altri. Mi facevo un'ora di palestra e dicevo che il lavoro extra sugli altri avrebbe fatto la differenza a lungo termine. Sono stato un grande lavoratore, però lavoravo come volevo io. Avevo altre convinzioni. Fisicamente ero un animale, andavo veramente bene. Prestazione atletica resistente, veloce, forte. Nella Coppa Davis ai tempi di Gaudenzi, Nargiso, Pozzi nel '98, quando facemmo semifinale in Francia (dopo aver battuto l'America a Milwaukee) feci i test atletici ed ero un giovane ventenne/ventunenne e già reggevo il confronto con gente come Gaudenzi, fisicamente. Però poi mi è mancato il resto.

Nel Challenger di Monza del 2005, dopo aver superato il primo turno contro il belga Steve Darcis, si presenta sul tuo cammino un giovane ragazzo serbo ancora minorenne e allora numero 153 del mondo. Ti lascia appena 2 game, vincendo 6-0 6-2. Quel ragazzo era Novak Djokovic e sei anni più tardi, nel 2011, sarebbe diventato numero 1 del ranking. Ti chiedo se hai qualche ricordo di quell'incontro e se ti aspettavi che sarebbe poi diventato una leggenda del tennis.

Leggenda era difficile prevederlo, però che fosse un predestinato si vedeva lontano un chilometro. Con Djokovic ci giocai ancora prima di Monza nell'ultimo turno di qualificazioni nell'ATP di Bucarest e mi ricordo che dissi a Fanucci (Fabrizio, ex tennista ed allenatore di tennis professionista): "Vabbè dai domani gioco contro un ragazzino, c'ha 16 anni, una passeggiatina". Persi 7-6 6-4, però lì Djokovic era ancora più acerbo. Già a Monza era numero 150 del mondo ed era un giocatore che si prendeva con le pinze. Sapevamo che era soltanto una questione temporale. 150 non era il livello di Djokovic a quell'età, era già molto più avanti. Però ovviamente ci vuole tempo per costruire una classifica. Dove mi sorprese veramente fu a Bucarest. Comunque i giocatori predestinati, che hanno una marcia in più, li percepisci dentro e fuori dal campo. Come Alcaraz in questo momento, ad esempio. È un giocatore che ahimè mi vien da dire che forse mi strabilia di più del nostro Sinner. Ormai diciamo che i due giocatori che vanno a braccetto per contendersi il numero 1 del mondo secondo me in questo momento sono loro due, come giocatori giovani. Alcaraz già visto un anno/un anno e mezzo fa si vedeva che aveva tutte le carte in regola per diventare un campione. Io l'ho visto anche prima, a 15 anni ed era già un fenomeno, si vedeva lontano un chilometro. I predestinati si vedono. Noi abbiamo uno che secondo me è un predestinato sicuro, ovvero Nardi (Luca), che ha vinto a Lugano questa settimana. Con relativamente poco lavoro, tanta resa. Lì c'é una qualità tecnica all'ennesima potenza, e ora si sta mettendo anche un pochettino più sotto a livello di allenamenti, mentalmente e come programmazione. È un ragazzo che ha un'altra marcia rispetto ai giocatori da Challenger. Io il paragone lo faccio così: prendo il classico giocatore a livello Challenger e lo metto a confronto. Lasciamo perdere poi la resa media perché poi c'è anche l'esperienza e quant'altro. Stiamo parlando di un livello superiore. I nomi che hai citato prima era tutta gente che prima di diventare forte a livello Challenger comunque già si notava che erano di un'altra marcia.

Volendo fare un parallelismo con il mondo del tennis a cavallo tra la fine degli anni 90 e i primi anni 2000 e il mondo del tennis attuale, come pensi che sia cambiato l'allenamento degli atleti non solo per quanto riguarda gli allenamenti con la racchetta ma anche a livello di preparazione fisica?

Nel campo da tennis, ti dico la verità, si fanno sempre le stesse cose. Non è un cambiato un granché. Magari prediligi un aspetto piuttosto che un altro però di base le esercitazioni sono quelle. Se non sei di base uno predisposto alla monotonia fai fatica ad allenarti in un campo da tennis. Tante volte, sempre la stessa roba, sempre fatta meglio, tirando più forte, stando più vicini alla riga e sbagliando di meno. Però alla fine sono quelle le cose. È cambiato sicuramente il modo di giocare a livello tattico. Rispetto agli anni 90, tantissimo. Basti pensare a quanta gente faceva serve and volley, cosa che è impossibile fare al giorno d'oggi. Questo perché si è alzata in modo mostruoso la capacità di rispondere bene dei giocatori. Non è che servono peggio, anzi servono meglio. Proporzionalmente è la risposta che è cambiata tanto negli anni. Le superfici sono più lente, anche indoor hard sono superfici lente e la palla torna sempre indietro. Molta gente che giocava nel 2000 gioca ancora oggi, gli stessi anziani. Nadal aveva 18 anni ed era numero 2 del mondo nel 2005 e ancora oggi gioca ed è performante. Sicuramente si è un po' adattato, ha cambiato qualcosa ma non è che ha stravolto il suo tennis, magari lo ha migliorato qualitativamente. Quindi non noto una grande differenza dagli anni 2000-2010 ad oggi. Dal punto di vista fisico, una volta si era un po' più dei trattori. Si cercava tanta quantità e se sopravvivevi bene, sennò ti spaccavi. Adesso si è unita anche un po' più di scienza, di medicina, della fisioterapia, della prevenzione, per cercare di tutelare l'atleta e diciamo che gli infortuni sono sempre minori. Negli anni 90 e anche 2000 le operazioni alla spalla erano all'ordine del giorno. Oggi sono nettamente meno perché c'é dietro sicuramente più scienza rispetto ad una volta. I volumi sono sempre tanti, tocca allenarsi molto per eccellere. Salvo che madre natura e la genetica non ti abbiano dato un fisico particolare, ma sono veramente delle mosche bianche.

C'è da dire però che sia con Berrettini che con Sinner ultimamente non siamo stati molto fortunati.

Vabbè ma quelli sono episodi, tu devi guardare la quantità di operazioni e di ritiri in un anno. Negli anni 2000 le problematiche erano molto più serie  e molto più frequenti per tutti. Possiamo parlare di un Seppi che ha una carriera longeva e incredibile senza praticamente avere avuto gravissimi problemi. Ne possiamo citare tanti di giocatori che non hanno avuto problemi. È ovvio che la scienza e la medicina hanno fatto passi da gigante. La prevenzione è una di quelle cose all'ordine del giorno per i team. Basti pensare che negli anni 2000 i top player viaggiavano da soli con i coach. Ora non mancano mai preparatore atletico, osteopata, fisioterapista. Fanno un lavoro e hanno un'attenzione particolare, lo staff si è ampliato perché hanno dato importanza a questi aspetti. Agassi i soldi per portarsi l'osteopata ce li aveva. Ma non c'era quella percezione di necessità e quindi non veniva fatto. È quello che intendo che è cambiato.

Nella tua carriera hai vestito per diversi anni la maglia della Nazionale, togliendoti anche delle grandi soddisfazioni, come la vittoria nel 2005 a Torre Del Greco in coppia con Daniele Bracciali contro Rafael Nadal e Feliciano Lopez. La stessa Nazionale che poi hai avuto modo di seguire, assieme a Corrado Barazzutti, fino allo scorso anno. Ad oggi l'Italia può contare su una rosa di altissimo livello. Ti chiedo dunque se credi che potrebbe arrivare, non solo quest'anno ma anche magari nei prossimi, la tanto attesa vittoria in Coppa Davis, che manca ormai dal 1976.

Abbiamo assolutamente le carte in regola per farlo. Bisogna fare quello che non è stato fatto l'anno scorso, ovvero la costruzione di un doppio. Oggi Bolelli-Fognini stanno dimostrando che questa coppia era quella che poteva fare la differenza. Se pensiamo che in prima convocazione Filippo (Volandri) non aveva nemmeno convocato Bolelli, probabilmente non aveva tenuto veramente conto che in una partita giocata su tre incontri (due singolari e un doppio), il doppio è veramente pesante. Non è come su cinque match, su tre match fa veramente la differenza. Ho ambito tantissimo ad essere capitano ma poi è stato scelto Filippo, che è molto bravo con i ragazzi. Sicuramente dovrà parlare con i giocatori e far sì che in questa stagione due coppie giochino costantemente insieme per costruire affiatamento e per presentarsi in Davis non con una ma con ben due coppie. Se salta un giocatore, poi ti devi arrabattare. Visto che hai la possibilità di convocarne cinque, devi riuscire ad avere un piano b sia in singolare che in doppio. Non ci possiamo permettere le convocazioni per far fare esperienza. Dobbiamo fare delle convocazioni per vincere gli incontri. Musetti, nonostante sia un grandissimo giocatore ed un bravissimo ragazzo, nell'economia della squadra quando ci sono Berrettini, Sinner, Sonego ed un eventuale Fognini come quarto, forse non è da preferire rispetto a Bolelli, che ti dà la possibilità di avere due doppi. Un doppio che è Fognini-Bolelli, poi un Fognini-Berrettini oppure Berrettini-Bolelli. Musetti a Torino ha giocato un doppio ma diciamo che in singolo probabilmente non sarebbe mai entrato in campo. Un giocatore l'esperienza in Davis non la deve fare, la Davis va meritata. Se uno ha deciso di lavorare bene in singolo, uno ha deciso di lavorare bene in doppio, noi dobbiamo mettere in campo la miglior squadra. Credo che il doppio sarà quello che farà la differenza. Però penso che possiamo vincerla assolutamente. Abbiamo giocatori fortissimi, se stanno bene fisicamente zero problemi. Possono battere chiunque.

Con il tuo programma su SuperTennis, Circolando, hai potuto visitare tante realtà tennistiche in giro per l'Italia. Oltre ai più noti Sinner, Musetti e Cobolli, che sicuramente avrai visto giocare, quali giovani tennisti azzurri ti hanno maggiormente impressionato e pensi che potrebbero avere una grande carriera in futuro?

Cobolli è un ottimo giocatore. Credo che possa salire in classifica. È un lavoratore molto serio. Fisicamente è forte e dotato a livello motorio perché giocava nella Roma calcio. Quando se n'è andato dal calcio, dalla Roma, diceva il padre (Stefano) che Bruno Conti (direttore sportivo della Roma) gli ha fatto il filo ("dai non mollare, ti porteremo in prima squadra"). È un ragazzo determinato, meno talentuoso di Nardi assolutamente, ma ugualmente con delle grandi qualità fisiche e tecniche. Può far bene. Zeppieri (Giulio) è un altro che sto aspettando. E' un mancino che serve da paura, ha un rovescio pazzesco e ha sistemato tantissimo il suo dritto. Giocatore offensivo, cresciuto insieme a Musetti. Sono convinto che anche lui possa arrivare. Diciamo che son questi i tre che in questo momento mi piacciono di più. Però devo dire che abbiamo veramente un movimento valido dietro (ad esempio anche Arnaldi). Ne abbiamo di terze fasce. Le prime fasce sono i giocatori che giocano gli Slam, seconde quelli dei Challenger e terze quelle stanno uscendo dai Futures per acquisire costanza all'interno del circuito Challenger. Ci sono tanti ragazzi. Il movimento maschile è ora in un momento florido. Vengono su come funghi i giocatori buoni. E' un sistema che sta funzionando ed è trainante. Sto aspettando le donne. Le donne hanno avuto, dopo il grande periodo, un buco generazionale e si sono persi i riferimenti. Non è semplice nel mondo femminile, soprattutto quando si è sempre criticati. In questo momento il tennis femminile è molto criticato ed è anche difficile per i giovani performare perché la pressione può arrivare non dal fare i risultati, ma dal fatto che si parla negativamente di un settore, come in questo caso il settore femminile. Il peso lo sentono anche i giocatori nuovi che cercano di venire fuori.

A Miami è arrivato un ottimo risultato per il tennis femminile italiano con gli ottavi di finale raggiunti da Lucia Bronzetti, che fanno seguito al terzo turno colto la settimana scorsa ad Indian Wells da Jasmine Paolini. Che prospettive vedi nel futuro delle azzurre, non solo in ottica Fed Cup, ma anche in generale nei tornei WTA e negli Slam?

Lucia Bronzetti è una giocatrice lavoratrice. L'evoluzione della sua classifica la dice lunga. Non c'è stata mai un'impennata, è stata una crescita graduale figlia del lavoro, super professionale, super professionista. Fisicamente preparata e disposta a mettersi in gioco. Sempre in viaggio, con una programmazione fitta di tornei. E' un esempio. E' l'esempio che il lavoro paga. Ha delle buone doti tennistiche ma non la riesco a vedere come il fenomeno, il talento. La vedo più come una giocatrice intensa. E' nata con Patricio Remondegui, argentino, allenatore di intensità. Con i Piccari e con la Knapp sta facendo un ottimo lavoro anche tecnico. E' lucidissima dal punto di vista tattico, sa quali sono i suoi pregi e i suoi difetti e li usa al meglio. Sta crescendo, però faccio fatica a pensare che la Bronzetti possa diventare una giocatrice alla Pennetta, Schiavone, Errani. E' una giocatrice buona. Chi ha i numeri veri è la Giorgi, ma ormai il tempo passa e purtroppo questi numeri stanno svanendo nel nulla. Ha un'ottima classifica, intorno al numero 30 del mondo, però dovrebbe stare tra le prime 5 del mondo solo per la sua fisicità. La Paolini ha un talento pazzesco. Dietro di loro però, a ridosso, non vedo molto. Lucia è venuta fuori ed è ottimo. Però poi dopo cosa abbiamo? Su cosa puntiamo? Non lo so, faccio un po' fatica. Credo che siano ancora in un momento di limbo. Però Lucia ha fatto questi risultati che rincuorano un po' le persone che stanno aspettando dei risultati da parte dalle ragazze.