Recuperare il vecchio spirito guardiolista. Questo è l’imperativo. Come possa una squadra, piena zeppa di campioni come una statuetta di terracotta di microfilm, giocare così male tanto da sembrare una barca alla deriva nel pieno di una tempesta, è un assoluto mistero. La preoccupazione che ha lasciato l’immagine della squadra sabato contro l’Athletic, va al di là della sconfitta. Non sono i tre punti mancati a levare il sonno, quanto la fragilità e lo smarrimento della formazione di Valverde. Come abbiamo già scritto, una squadra che gioca assieme da molti anni, diretta da un tecnico che inizia la sua terza stagione, e che vanta tra le sue file una lista di crack come quelli blaugrana, dovrebbe giocare a memoria, intendersi al minimo battito di ciglia. Non solo non dovrebbe perdere contro il volenteroso (senza andare a scovare alcun dispregiativo in questa parola) Athletic, ma dovrebbe dare spettacolo, proponendo un calcio fatto di intesa, tecnica, magia. Niente di tutto ciò si è visto a San Mames. Sembrava, anzi, una squadra costituita da giocatori che non si erano mai visti, diretti da un tecnico che aveva preso la squadra in mano per la prima volta.
Di chi è la responsabilità di questo scempio? Dei giocatori, della guida tecnica, della directiva? Da quando Guardiola ha lasciato, la squadra ha, piano piano, prima in maniera impercettibile, poi sempre più evidente, iniziato a disgregarsi, ad arrotolarsi su se stessa, perdendo tutte quelle caratteristiche che l’avevano fatta assurgere a modello del calcio mondiale, a squadra utopistica, come il modello di democrazia dell’antica Grecia. Grande compattezza della squadra, giocatori e reparti vicini gli uni agli altri, velocità di esecuzione dei movimenti, tocchi di prima, massimo di seconda, movimento perpetuo di tutti i calciatori sul terreno di gioco per permettere al portatore di palla sempre multiple soluzioni di gioco, pressing portato non da un singolo elemento o da un reparto, ma da tutta la squadra al fine di accorciare in avanti e rubare palla sin dalla trequarti offensiva. Con Pep non correvano i giocatori, correva la palla. Nessuno portava il pallone attendendo lo smarcamento degli attaccanti; la sfera girava a ritmo vertiginoso da una parte all’altra, prima in orizzontale e poi in verticale perché i tagli dei giocatori permettevano sempre lo scarico veloce e sicuro. Chi effettuava il passaggio non si fermava come se avesse completato il suo compito, ma si proponeva per ricevere nuovamente e scambiare con altri compagni.
Di tutto questo, del guardiolismo, del gioco totale e del cruyffismo, oggi non c’è più niente nel FC Barcelona. I blaugrana sono diventati dei giocatori lenti, compassati, con poca voglia di giocare, o peggio ancora, con scarsa intelligenza calcistica, quasi fossero invecchiati di colpo con la fine dell’Utopia del Pep. Fisicamente sono belli asciutti, pieni di muscoli e floridi, ma a vederli giocare sembrerebbe di vedere in loro dei tranquilli, pasciuti (con tanto di pancia) impiegati statali che al termine del loro comodo lavoro lezioso, lento, sonnolento e noioso, scendono in campo per fare una sgambata. Nulla più. Il rischio, oltretutto, è anche quello di rovinare giocatori che hanno nelle loro corde quello spirito originale. Come De Jong, che a differenza dei suoi compagni è stato l’unico a giocare a uno-due tocchi. Per quanto tempo ancora? Sarà De Jong a trasformare Valverde o sarà il tecnico a rovinare l’olandese? Non per nulla l’ex Ajax aveva subito messo in evidenza, dalle primissime uscite, le differenze tra Ten Hag e Valverde, l’Ajax e il Barça, contestando il mancato recupero immediato del pallone e la scarsa velocità della manovra.
Le partite e i trofei non si vincono per il nome che si porta, ma per ciò che esprimi sul campo. E anche un avversario inferiore può battere il più forte se gioca seriamente. E non basta, come fa il Barça in Champions, giocare una gara su due per vedere alzare la orejona. Ed è proprio per questo sonnolento, comodo e tranquillo tran-tran che nascono le partite di Torino, Parigi, Roma, Liverpool, Bilbao.
Da Guardiola in poi, passando prima per Tito, il Tata, Lucho e ora il Txingurri, la squadra ha perso la sua anima e identità, creando un pericoloso effetto memoria sulle stagioni immediatamente precedenti. Così sembra di giocare sempre alla stessa maniera senza rendersi conto che tra la formazione di Guardiola e quella di Valverde, ma anche quella di Luis Enrique, l’unica nota in comune è lo stadio in cui si gioca. Per recuperare ciò che si è perso bisogna resettare tutto e ripartire dall’ultimo Guardiola. Se giocatori, allenatore, directiva non sono in grado di farlo che si facciano da parte. Il barcelonismo merita ben altro che questo brodino malamente riscaldato.